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STRATEGIA DI FONDO
IMPERIALISMO USA
1. La guerra del Vietnam e la crisi del fordismo
L'assetto economico internazionale si è mantenuto stabile per oltre un ventennio, sulle basi di quanto uscito dalla conferenza di Bretton Woods del 1945: una moneta egemone, il dollaro, un paese leader, gli Stati Uniti d'America. L'accordo, avversato da Lord Keynes, sanciva i rapporti di forza nel mondo capitalistico usciti dal secondo conflitto mondiale: non un governo collettivo dell'area dominata dal capitale privato, come proponevano gli inglesi, ma un modello verticale in cui gli USA dominavano gli organismi di controllo internazionale e ne dettavano le scelta; in cambio essi dovevano garantire che la loro moneta, imposta quale punto di riferimento dei cambi, permanesse stabile e ben agganciata alla parità con l'oro.
Se questo era lo stato dei rapporti internazionali di scambio, il modello organizzativo della produzione, e quello sociale ad esso collegato, era e restava quello fordista, il cui punto di riferimento teorico era rappresentato dall'elaborazione che Keynes aveva sviluppato negli anni venti e trenta e che era stato sperimentato con successo nella risoluzione della lunga crisi mondiale succeduta al crollo della Borsa di Wall Street del 1929.
Nel 1971 il Presidente Richard Nixon annunciava la non convertibilità del dollaro in oro, mettendo così in crisi il sistema tratteggiato più sopra e con esso il ruolo stesso degli USA quale potenza egemone e centro strategico imperialistico. Occorreva trovare altre forme di dominio se questo ruolo doveva essere mantenuto. Ma prima di ciò occorre capire cosa aveva costretto o spinto l'Amministrazione statunitense ad un passo tanto rischioso.
Un ruolo primario aveva sicuramente giocato la sconfitta registrata poco più di un lustro prima nella guerra indocinese. L'impegno bellico in Vietnam ed in tutta l'area del sud-est asiatico era stato senza dubbio rilevante, portandosi dietro un forte carico inflattivo, perché privato del ritorno di commesse che una vittoria avrebbe garantito.
La contingenza, però, non è da sola in grado di spiegare una svolta strutturale della profondità quale quella che si dispiegata nello scorcio del secolo. Una verità più basilare sta, forse, nella lenta trasformazione subita dall'assetto del capitale nel corso del ventennio succeduto alla fine del conflitto. La centralità della moneta, con la conseguenza della forzata stabilità, ha minato nel corso degli anni le possibilità imprenditoriali, deprimendo le capacità produttive statunitensi. D'altro lato la stessa stabilità monetaria ha catalizzato l'arrivo massiccio di capitali stranieri, attirati dalla certezza della redditività, promuovendo un'ipertrofia del capitale finanziario. L'eccedenza finanziaria, a fronte di una decadenza del capitale di rischio, ha costituito la base materiale della svolta cui si è assistito.
2. L'emergere delle teorie monetariste
Le nuove esigenze poste dalla preminenza del capitale finanziario hanno trovato una risposta nelle teorie economiche neoclassiche o neoliberiste. Da oltre un decennio il premio Nobel Milton Friedman ed alcuni suoi allievi predicavano un ritorno a teorie di libero mercato, con una riproposizione di un impianto legato all'ipotesi della mano invisibile, abbandonata alla metà del XIX° secolo. Ma un altro aspetto della teoria era quello più aderente alle esigenze della finanza: il controllo del ciclo economico veniva per intero delegato alla moneta sotto forma di aggregato monetario (l'insieme della valuta e del circolante non materialmente rappresentato dalla valuta, come impegnative, assegni ed altro, che ha assunto nel tempo seconda la ridefinizioni adattative nomi diversi, prima M1, poi M2 ed infine M3); ne conseguiva che l'amministrazione statale dell'economia doveva lasciare mano libera al dispiegarsi naturale del ciclo economico, garantendo soltanto la forza e la stabilità della moneta.
Il nemico giurato dei possessori del denaro, l'inflazione, diveniva pertanto il demone che il monetarismo garantiva di esorcizzare. Tutto ciò rendeva possibile un afflusso crescente di capitale straniero nella nazione a guida economica monetarista, anche se la sua forma non era più legata allo sviluppo industriale e produttivo, ma al profitto a breve, alla rendita realizzata nel gioco della borsa o dei cambi, alla speculazione spesso fuori controllo. Non è un caso se gli ambienti finanziari di New York e di Londra sono divenuti nel corso degli anni ottanta i punti di riferimento più accreditati del mondo economico internazionale.
La crisi del dollaro del 1971, grazie a queste scelte, non si è convertita in un crollo della moneta, ma anzi il libero gioco dei cambi e l'alleggerimento della moneta statunitense dai vincoli che ne facevano il perno internazionale, con i conseguenti onori e, principalmente, oneri, portarono il foglio verde ad acquisire al principio degli anni ottanta il suo massimo storico.
Ma prima di essere sperimentate negli USA, le teorie monetariste vennero provate in un paese piccolo e dall'economia sotto stretto controllo statale, totalmente infeudato, il Cile di Pinochet dopo il colpo di Stato del 1973. Da lì spiccarono il volo prima verso la Gran Bretagna della signora Thatcher e poi infine nell'Amministrazione Reagan.
3. Il loro massimo fulgore
Col divenire il riferimento dello Stato centrale del mondo capitalistico, le teorie monetariste e neoliberiste divennero il vangelo economico, che ogni altro paese doveva accettare volente o nolente. Il controllo stretto che gli USA ereditavano dal precedente sistema dei rapporti di scambio, quali l'egemonia sui GATT, sulla Banca Mondiale e sul FMI, garantiva che le ricette economiche adottate dall'Amministrazione di Washington dilagassero a macchia d'olio, prima nei paesi più strettamente legati, poi a quelli ricattabili del Terzo Mondo schiacciati del debito contratto e poi ai concorrenti più riluttanti.
Il patto di Maastricht, fondativo dell'integrazione europea, pagava un pesante tributo al monetarismo nella scelta dei parametri di controllo delle varie economie: debito pubblico, inflazione e deficit di bilancio. Agli stessi principi si sarebbero adeguati i paesi usciti dalla disintegrazione dell'Unione Sovietica e dal crollo del capitalismo di Stato. Le stesse linee hanno, in epoca più recente, guidato l'esplosione dell'economia cinese.
Negli anni ottanta, al massimo della loro legittimazione, il dilagare delle nuove teorie economiche ha prodotto una serie di luoghi comuni, che pesano tuttora nelle analisi di molti studiosi e di molti operatori: detassazione dei redditi alti, in base ad una improbabile curva di Leffer, per stimolare la crescita e gli investimenti; privatizzazione di ogni settore dei servizi per abbassare i costi e migliorare la qualità (nozze e fichi secchi); il mercato come arbitro supremo ed imparziale delle capacità imprenditoriali e delle nazioni, dimenticando gli accordi, la corruzione, la concorrenza sleale; la borsa come termometro dell'economia, senza considerare le manovre speculative. Le conseguenze sono state nell'ordine: la fuga dei capitali dagli investimenti verso forme speculative a breve, con conseguente deindustrializzazione; aumento ei costi pubblici per i servizi e decadimento della qualità per gli utenti; gli scandali finanziari (Enron; Parmalat, ecc.); la bolla speculativa della fine millennio ed il crollo finanziario dell'Argentina.
Con tutto ciò nell'economia mondiale si era verificato un profondo mutamento di assetto. Gli USA da perno del sistema economico internazionale, da nazione principale ed egemone, si erano trasformati nel padrone del mondo capitalistico, cui dettavano le regole da seguire: da capitale del complesso delle nazioni liberali imperialiste, in nazione imperialista tout court. Un'egemonia non condivisa, scatenava d'altro lato una lotta per essa. Così l'Europa a guida tedesca ed il Giappone lanciavano il guanto di sfida agli Stati Uniti.
4. Il dollaro forte e la crisi industriale
La forza della moneta era il segreto del successo internazionale, ma le sue conseguenze sul piano interno non erano state ben calcolate. Negli anni ottanta la parola deindustrializzazione divenne negli USA da slogan realtà, con la concorrenza di più fattori. L'enorme afflusso di capitali, richiamati dai rendimenti nel cambio, dalla crescita ipertrofica e apparentemente inarrestabile della Borsa e dalle opportunità speculative, non prendeva la via degli investimenti, ma quella dei profitti a breve della natura sopra descritta. D'altronde la supervalutazione della moneta rendeva meno commerciabili le merci statunitensi all'estero e con ciò meno appetibile un impiego dei capitali nell'attività produttiva. Gli USA si trasformarono da paese esportatore in paese importatore e la loro bilancia commerciale da allora è entrata, definitivamente a tutt'oggi, in rosso profondo.
Il mancato afflusso di investimenti produttivi ha comportato ulteriori problemi. La ricerca e l'innovazione tecnologica, un tempo finanziata essenzialmente da fondi privati, ha conosciuto un rallentamento, che ha permesso nel corso del penultimo decennio del XX° secolo una pericolosa rincorsa da parte principalmente del concorrente giapponese. Tant'è che l'Amministrazione Reagan è venuta in soccorso lanciando una campagna di armamenti (guerre stellari) il cui scopo principale era quello di rivitallizzare la ricerca con fondi pubblici.
Il panorama complessivo dopo un decennio di ricette neoliberiste applicate all'economia era quello di una forte crisi industriale, con interi distretti che erano ricaduti nel degrado e nell'abbandono, con la perdita di un'enorme quantità di posti di lavoro e di capacità produttive. E dall'altro lato un'ipertrofia di capitale finanziario lanciato in una corsa folle verso la speculazione sui titoli della nuova economia (new economy), la cui base materiale era del tutto inconsistente nei confronti della valutazione borsistica.
5. Nuovi strumenti imperialistici
I problemi sollevati dal controllo imperialistico imperniato sulla forza della moneta determinarono la ricerca di nuove strategie di dominio. La scelta si è orientata verso l'egemonia sulle risorse strategiche. Cibo, energia e tecnologia sono divenuti gli assi direttivi sui cui si sono sviluppate negli anni novanta le mire statunitensi, nella palese difficoltà di accaparrarsi i nuovi mercati che si stavano aprendo alla concorrenza capitalistica. La supremazia economica veniva trasformandosi nel potere basato sul ricatto del possesso dei materiali fondamentali.
Già negli anni ottanta la produzione di cereali era divenuta una forma di destabilizzazione del concorrente sovietico, penalizzata dal fallimento dei pieni quinquennali; l'impossibilità del controllo capillare gestito dall'alto, soprattutto in un sistema in cui la carriera burocratica si basava sui successi legati al mantenimento delle consegne della programmazione e quindi sull'impulso a barare nei rendiconti, unita ad alcune stagioni sfavorevoli per i raccolti ed alla distrazione dei fondi per la corsa degli armamenti, aveva reso l'URSS dipendente dalle importazioni di cereali dagli USA. Il problema, però, ha assunto una piega molto più inquietante con l'impegno delle multinazionali alimentari (Monsanto) nella ricerca biologica e negli OGM, con la conseguente colonizzazione del Sud America e di parti dell'Africa.
La supremazia nelle aree di produzione delle materie prime (con il petrolio tuttora in primissimo piano) ha contrassegnato tutti i conflitti, aperti e sordi, dello scorcio del XX° secolo e dell'inizio del XXI°. E con le aree anche le vie di comunicazioni tra di essi ed i paesi consumatori (corridoi). Al di là delle evidenti implicazioni economiche dei conflitti nell'area del Golfo Persico è tutta l'area caucasica e centro asiatica che è entrata in fibrillazione permanente (quest'ultima recentemente per costruire una barriera, presumibilmente efficace, alla penetrazione del nascente imperialismo cinese.
Infine la tecnologia. Dagli anni Trenta gli USA sono stati il paese del progresso scientifico e tecnologico. Dopo lo sconcerto dello Sputnik e della impetuosa avanzata sovietica negli anni Sessanta, un imponente programma di ricerca fu varato, con l'acquisizione dei migliori e promettenti ricercatori in campo internazionale. La NASA vinse la corsa dello spazio producendo una ricaduta incalcolabile nella tecnologia civile, cui seguì la nascita di Silicon Valley, della Microsoft, della IBM, etc. La decadenza industriale degli anni Ottanta consentì un forte recupero tecnologico da parte del Giappone, tanto da far prevedere ad alcuni analisti nipponici il sorpasso nel primo decennio del duemila. La previsione non si è avverata per le difficoltà nascenti del sistema economico giapponese, ma l'allarme era forte e da esso discese, come detto, l'impegno in un nuovo programma massiccio di ricerca finanziato con fondi pubblici.
Tutte queste strategie mancavano però di un supporto di autorevolezza che deficitava proprio per la debolezza dell'economia statunitense: l'alto debito pubblico, la bilancia commerciale in perenne forte passivo, la perdita della competitività delle merci (a parte il monopolio dell'elettronica e del software). A ciò occorre aggiungere la forte concorrenza giapponese e la nascita di un'economia integrata europea, con la prospettiva poi realizzata di una moneta unica forte ed in grado di scuotere il dominio del dollaro.
6. La crisi dei nuovi soggetti emergenti
Alla fine degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta l'economia internazionale, assoggettata alle terapie neoliberiste, ha conosciuto una serie ininterrotta di crisi, che hanno progressivamente fatto scomparire dal panorama quasi tutti quei paesi che si erano presentanti quali temibili concorrenti dell'economia statunitense in stato di perenne malattia. E ciò in concomitanza con la scomparsa del nemico che aveva accompagnato tutto l'arco della seconda metà del secolo: il blocco sovietico.
Per prime sono entrate in crisi le cosiddette tigri asiatiche: Malesia, Corea del Sud, Formosa, Singapore, Tailandia, etc. Poi è stata la volta del Giappone, ed infine quella dell'America latina: Brasile ed a scoppio ritardato Argentina. Se si esclude il Giappone, tutte le altre crisi non si sono dimostrate vantaggiose per il recupero degli USA sui mercati internazionali. La contrazione della richiesta di merci, conseguente alle crisi economiche di paesi legati strettamente all'economia statunitense, si è sommata alla contrazione dovuta alla rigida applicazione delle teorie neoliberiste in tutti i paesi, che ha comportato una riduzione dei redditi da lavoro dipendente (la grande massa dello sviluppo dei mercati in epoca keynesiana) a favore delle rendite.
I nuovi mercati che si speravano aprirsi alle merci capitalistiche dopo il crollo dell'URSS, si sono mutati in terreno di conquista di pochi oligarchi usciti dalla nomenclatura sovietica e riciclati ad un sistema di conduzione dell'economia tipicamente mafioso. Su di essi poi si aperta la concorrenza europea che ha ulteriormente minato le possibilità di conquista delle merci statunitensi. Ma gli avevano già approntato ed avviato un'altra strategia.
7. La svolta militarista
Lo scorcio di Amministrazione repubblicana della fine del penultimo decennio del XX° secolo, quella di Bush sr., ha visto affacciarsi al comando una nuova leadership politica di destra, non legata alle vecchie impostazioni del partito (politica interna e scarsa propensione ad impegnarsi sui teatri esteri); questo gruppo di potere, cresciuto negli uffici di studi strategici, e che aveva il proprio istituto più rappresentativo nel PNAC (Project for a New American Century), era legato strettamente alle industrie belliche ed alle multinazionali dell'energia. La via che esso tracciava era elementare: se gli USA devono tenere fede al proprio dovere di regolare secondo il concetto statunitense di pace e democrazia il resto del mondo ormai unipolare, dovere che gli deriva dal proprio ruolo guida e dall'egemonia esercitata nella lotta contro il male sovietico, essi si devono dotare di una incomparabile forza militare, unico strumento in grado di restituire autorevolezza e con essa la possibilità del dominio al vacillante impero. Ovverosia veniva invocato e messo in opera lo strumento classico di ogni imperialismo: il potere militare.
La guerra del Golfo del 1991 fu l'assaggio di tale strategia, poi diluita in un più generico interventismo negli affari internazionali, tipica delle politiche democratiche, durante gli otto anni dell'Amministrazione Clinton. Questi furono caratterizzati dal tentativo di un tradizionale rilancio economico, secondo canoni legati al sostegno dell'economia ed alla competitività delle merci, destinati, per quanto detto più sopra, all'insuccesso. Col ritorno dei repubblicani al governo nel 2001, l'obiettivo è riemerso con chiarezza: egemonizzare con la politica, e laddove questa non fosse sufficiente, con la forza le aree strategiche del pianeta.
Per far ciò occorreva liberarsi delle pastoie rappresentate dalle regole del diritto internazionale, degli organismi quasi paritetici e di mediazione dei conflitti e dei contrasti tra i paesi, costringendo gli alleati concorrenti sulla difensiva, costringendoli ad adattarsi al fatto compiuto, pena il venire esclusi dalle briciole di benefici che potevano essere loro graziosamente elargiti. Con lo schiaffo dato all'ONU nel 2003, veniva definitivamente stracciato il velo di un organismo retorico ed inefficiente, per far apparire il vero volto del nuovo padrone globale.
8. Finanza ed esercito
Da qualche anno gli USA presentano una crescita economica sostenuta, anche se la bilancia commerciale rimane fortemente passiva, anzi sempre più pericolosamente passiva. Appare strano che gli analisti non rilevino questa anomalia, per altro vistosa. Non ha caso la nuova crescita considerevole del PIL è iniziata nel 2002 ma dal 2002 al 2004 il deficit tra esportazioni ed importazioni è salito da 482,9 a 685 miliardi di dollari. È, comunque, vero anche che in questi ultimi tre anni sono cresciute anche le esportazione, seppure in misura inferiore alle importazioni.
Forse altri dati riescono a mettere insieme questo quadro contraddittorio. Nell'industria del settore bellico tra le prime dieci imprese a livello internazionale sei sono statunitensi (tra cui le prime tre), mentre una è inglese, una francese, una olandese ed una italiana. Il 47% della spesa militare mondiale è sostenuto dagli USA, che hanno ovviamente anche il record della spesa pro capite.
La produzione bellica, per sostenere lo sforzo di dominio intrapreso dagli Stati Uniti, ha dato impulso all'economia di quel paese; e con esso hanno preso terreno l'indotto tecnologico e le imprese legate all'economia di ricostruzione dei territori devastati dalla guerra e per la loro adeguata modernizzazione, allo scopo di inserirli nell'economia globalizzata. Questi settori hanno fatto convegni preventivi alla scoppio della guerra in Irak per spartirsi anticipatamente le commesse che sarebbero inevitabilmente arrivata. Altro settore che per sua natura ha beneficiato di questa strategia è quello dell'energia, sia per l'aumento dei consumi, sia per l'accaparramento delle risorse nei luoghi della produzione. Lo sforzo bellico si concentra infatti nel garantire il controllo geopolitco delle aree di produzione e di passaggio delle risorse energetiche, con il duplice scopo sia di garantirsi le risorse per il consumo interno, sia di indebolire le potenze concorrenti.
Solo una parte minoritaria di questo gigantesco sforzo produttivo si riversa nelle esportazione, mentre gran parte del prodotto bellico viene consumato nell'economia interna (anche se utilizzato fuori dal territorio). Perciò aumentano di poco le esportazioni, ma con l'aumento del PIL, aumentano anche le importazioni, sia per sopperire alla crescente domanda per la produzione, sia per andare incontro ai beni di consumi richiesti e non coperti dai settori produttivi in decadenza.
9. La ripresa prossima ventura
I tassi di crescita statunitensi, così esaltati nei commenti degli economisti, hanno il tallone di Achille di riferirsi ad una situazione bellica di emergenza. La tentazione di una guerra infinita cozza contro la complessità delle situazione nei teatri dei conflitti, che non rispondono alle analisi superficiali ed ottimistiche degli esperti. Cozzano soprattutto con l'insostenibilità economica, che drena capitali pubblici verso una spesa improduttiva, che arricchisce pochi imprenditori di settore, ma contribuisce ad indebolire l'insieme dell'apparato produttivo: la voragine dei conti pubblici appare senza fondo.
Il sogno di un dominio puramente militare non è perseguibile se non gli fa da supporto un'economia sostanzialmente sana in grado di regolare gli scambi internazionali. E su di questi, oltre al tradizionale concorrente europeo, inizia a farsi strada un competitore dalle enormi potenzialità umane e dai costi non ancora spinti verso l'alto da un adeguato allargamento del benessere sociale: la Cina, fortemente rafforzata dall'accordo con un'altra economia in forte espansione e ad essa complementare, quella dell'India. Laddove si trascuri il sorgere di potenze d'area, in grado di impensierire localmente gli interessi statunitensi sia dal punto di vista militare (Iran), sia dal punto di vista economico (Brasile).
Allo stato presente, nonostante evidenti velleità imperialiste di singoli Stati membri, l'Unione Europea rappresenta per gli USA più un temibile concorrente nella penetrazione dei mercati internazionali, quelli ex sovietici e quello cinese in particolare, che un antagonista in competizione sul dominio imperialistico.
(documento assunto al 7° Congresso della F.d.C.A. del 2006)
A partire dal 7° Congresso FdCA del 1 ottobre 2006, questo documento sostituisce: Imperialismo U.S.A..
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